La ricetta vincente tra tecnologia e uomo: insieme, non al posto
La tecnologia deve essere al servizio dell’uomo, non sostituirlo. Noi di Ated siamo profondamente convinti che l’atout vincente sia una collaborazione tra fattore umano e macchine, tra intelligenza umana e emotiva e intelligenza artificiale. Invece spesso si vede un rapporto sbilanciato, dove le persone delegano il loro ruolo, i loro rapporti, anche la loro crescita personale e professionale, all’AI, pretendendo però al contempo di non esserne sostituite.
Il paradossi tra AI e fattore umano
Si tratta di uno dei paradossi più evidenti e sottovalutati dell’evoluzione che negli ultimi anni è derivata dall’avvento delle nuove tecnologie, sia in ambito privato che lavorativo. Molti temono di poter essere sostituiti dall’intelligenza artificiale, vista come potenzialmente in grado di eliminare posti di lavoro e addirittura professioni e competenze, anche se in realtà, se usata con intelligenza, l’AI supporta i lavoratori, rendendoli più efficienti e liberando ore di lavoro per poter dare un apporto realmente significativo. Ma come si teme di poter perdere il posto a causa del progresso tecnologico, però, ci si affida totalmente a esso, delegandogli la maggior parte dei compiti. Sempre più spesso gli studenti fanno scrivere le tesi da ChatGPT, sempre più persone inviano email precompilate da un chatbot, si fanno supportare in ogni compito. Sicuramente l’uso consapevole e intelligente dell’AI è da incoraggiare, tramite una formazione mirata, che porti a comprendere come utilizzarla in modo che sia realmente potenziante ed efficace.
L’idea che si possa impiegare ovunque, non mettendoci più fatica, ragionamento, valutazioni e la propria impronta unica, con pochi click e a gratis o con bassi investimenti è però insidiosa e porta con sé vari rischi. I pericoli vanno oltre quelli relativi alla perdita di senso critico che nasconde bias cognitivi e condizionamenti e a quelli prettamente legati alla cybersicurezza, con la protezione dei dati e possibili truffe e malware. Delegare tutto all’intelligenza artificiale vuol dire perdere il proprio lato umano, la propria unicità, utilizzarla come integrazione invece può essere fattore di crescita.
Il caso dei curriculum vitae e della selezione del personale
Gli appelli sulle stampa si susseguono, man mano che si acquista consapevolezza di che cosa vuol dire avere a che fare con l’AI senza etico e un po’ di buon senso. Il TagesAnzeigier mette l’accento sul ruolo che la tecnologia può avere nella selezione del personale. Quando si cerca un lavoro, il primo passo è compilare il proprio curriculum vitae, un documento formale che ha il compito di riassumere la vita professionale, le hard e le soft skills, dando un quadro completo del candidato. Realizzarlo è un esercizio di consapevolezza. Ma al giorno d’oggi spesso, per poter far colpo sui selezionatori, molti candidati scelgono di farsi aiutare da ChatGPT, da Claude, da Bard, a migliorarlo. Il chatbot, che impara grazie ai dati con cui viene addestrato, col tempo ha appreso quali sono le caratteristiche che deve avere un curriculum vitae e le ripropone ad ogni candidato, puntando sulle hard skills fondamentali per il settore in cui ciascuno opera e sulle soft skills che sono basilari in ogni rapporto lavorativo. Capita che aggiunga dettagli, esperienze, caratteristiche cui il candidato non aveva nemmeno pensato e che però è felice di inserire, pensando che aumenti le sue chance. Non le aveva mai considerate, però, perché probabilmente non le ha, non fanno parte del suo bagaglio. Scordando il fattore umano, invia a potenziali datori di lavoro un cv efficace, attrattivo che però non corrisponde alle reali competenze. A loro volta, le aziende usano l’intelligenza artificiale nel processo di selezione, quanto meno iniziale, dove si trovano confrontati con una serie di candidature che, raffinate dall’intervento dei chatbot, sembrano standardizzate e simili tra loro.
Le conseguenze sui rapporti di lavoro di un uso poco critico dell’AI
Al termine del processo di selezione, può intrecciarsi un rapporto di lavoro che però è avulso dalla relazione. Le persone sono di più oltre le competenze, sono il loro modo di lavorare, di interfacciarsi, di agire in gruppo, sono sfumature che si possono cogliere all’interno di un dialogo: l’intelligenza artificiale non lo sa fare, non può tradurre in parole emozioni che per definizione non prova. Ne nascono alleanze lavorative che non sempre hanno il loro perché, con lavoratori che si trovano a dover svolgere compiti non adatti e aziende che non ottengono i risultati sperati, con conseguenze negative per entrambi: poca sensazione di autoefficacia, stress, ansia, turnover, abbandoni per i lavoratori, risultati non ottenuti e personale nuovo da trovare, sempre tramite AI, e inserire per le aziende.
L’intelligenza artificiale nei match amorosi
Non solo il cv: ci si fa aiutare a scrivere anche il profilo per le app di dating, inserendo una ulteriore variabile a detrimento dell’impronta umana. Come possono nascere relazioni spontanee e vere su match tra profili ottimizzati secondo schemi e non per sentimenti e peculiarità, quando già gli incroci tra profili utilizzano dati e incroci e non emozioni?
Quando la tecnologia sostituisce medico e psicologo
Sempre più persone chiedono ai chatbot consigli sulle proprie relazioni, sul proprio vissuto, ottenendo suggestioni che seguono, ancora una volta, gli schemi con cui soni stati addestrati e tralasciando di nuovo il fattore umano, quello più importante. Succede di sentirsi dire che non serve più consultare uno psicologo quando ci si può interfacciare con ChatGPT, anche se sembra paradossale. Lo strumento è a disposizione, senza limiti di tempo, in qualsiasi momento. Ma non può cogliere i dettagli, i non detti, il linguaggio del corpo, il vissuto. Scorda i dettagli condivisi, (anche se non significa per forza che non memorizza i dati) dopo ogni conversazione, mentre la storia di una persona è fatta di azioni sequenziali, di eventi, di evoluzioni. L’intelligenza artificiale non può sostituire una relazione terapeuta-paziente, non può dare diagnosi mediche, perché non in grado di tener conto di una infinita serie di fattori.
Non è un collega ma può far perdere competenze
Sembra ovvio ma per molti pare non esserlo. Se si assiste a una disumanizzazione di tanti processi non è causa dell’AI ma dell’uso che se ne fa, che mette in secondo piano il fattore umano. Nadine Bienefeld, esperta di nuove tecnologie, docente al Politecnico federale di Zurigo ed ex collaboratrice della Nasa, sottolinea il rischio di trattare l’intelligenza artificiale come un collega, portando alla perdita di competenze. La soluzione è in un uso critico, che si basi non solo sull’etica, un tema molto discusso in materia di progressi tecnologico, che parte dalla formazione, a partire già dai bambini: a quel punto, la tecnologia potrà essere un vero alleato, non un sostituto che fa perdere l’unicità delle persone.
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